Il poeta è un clandestino di Carlo Cipparrone. Nota critica di Giorgio Linguaglossa

Cipparrone-copL’idea di poesia vive come in una caverna tra ciò che essa pretende di essere e quel che essa è; tale idea viene mantenuta in vita dal poeta che riflette sulla poesia come oggetto e sulla riflessione quale pensiero del soggetto sull’oggetto. È da sempre l’utopia del pensiero estetico che ricorre alla metapoesia per pensare la poesia, al non identico per pensare l’identico; e che le parole siano libere di esprimere ciò che esse non possono più esprimere perché attratte dall’identico di ciò che identico non è e mai lo sarà. Così la metapoesia di Carlo Cipparrone si presenta come un discorso dell’immediatezza sull’identità di ciò che identico non è; è poesia che riflette la crisi di identico e non identico; è poesia della crisi, è una versione, estrema, della crisi della soggettività che si sa relegata in una periferia, è poesia di periferia che vuole esibire la tessera alimentare della propria malcerta sopravvivenza; è poesia della soggettività che vuole attingere la singolarità come se non sapesse (ma lo sa) che quella soggettività è altrettanto «falsa» tal quale l’idea dell’universale che quell’idea postula e presuppone e finanzia. È l’idea, pur nobile, di poesia come «resistenza», atto «clandestino», solitario di libertà e di immediatezza nel mondo amministrato della illibertà dominante; è la coscienza della disillusione per quest’atto irrisorio di libertà. Le parole non sono né vuoto suono, nè choris ma segno negativo che non indica la cosa ma un linguaggio inerte in un vuoto circolo ermeneutico tautologico; le parole non abitano alcun demanio, alcuna dimora, alcuna residenza alberghiera e non godono di alcuna ristorazione, questo sembra dirci la poesia di Cipparrone; ed è il suo biglietto da visita, il certificato di residenza di un intellettuale non organico se non alla periferia e al «disordine delle parole» cui è irrisoria panacea volerle riordinare dalla superficie o «dal profondo» come titola una sua poesia:

Anche il più greve di noi

è leggero, alato,

poiché il poeta è uccello liberato

dalla gabbia della prosa:

è il suo pregio-difetto.

Ma mi ficcarono il piombo

nelle tasche, nelle scarpe, nel cappello;

non riuscendo più a volare

finii per imitare la fuga della talpa,

fui preso da un cieco

sotterraneo furore di scavare.

Ora non posso più guardare

dall’alto la vita,

ma la sento dal profondo.

Sono l’uccello più triste

e la talpa più felice del mondo.

Il poeta calabrese fa poesia del polemos, è polemica nella sua più profonda fibra, nella fibra dell’immediateza che nega la forma nel mentre che la recluta. E sarebbe anche un atto ingenuo e, al contempo, una hybris voler sfidare il mondo della totalità delle scritture letterarie con quest’atto di una soggettività posta nell’estrema periferia calabra, e Cipparrone ben lo sa, ma non può fare altro che denunciare

L’abile uso della parola,

il sapiente dosaggio del dire e non dire,

l’ambigua liturgia di metafore, allegorie;

lirichette, poesiole,

rose, gardenie e violette,

fiori gentili, delicati,

innaffiati ogni sera sul balcone.

Cipparrone, dunque, dall’alto della saggezza dei suoi anni, può chiamare la malattia con il suo vero nome: «il cadavere del significato», come nella omonima poesia che così comincia:

Sono tanti i poeti perversi

che, ritenendosi di palato fine,

ostentano snobismo e alterigia.

Odiano semplicità e trasparenza,

amano la pagina esangue,

la frase asfittica, zeppa d’oscure

metafore, d’ermetiche allegorie.

Torcono il naso di fronte

agli onesti poemi,

ostinandosi a uccidere il senso

nei propri versi.

Io sono del parere che una soluzione estetica è una soluzione estetica di un problema, una soluzione estetica la si ha soltanto nella sua formalizzazione in una «forma», la «forma» è un discrimine assolutamente necessario alla poesia, in sua assenza, quello che ne deriva è soltanto un composto irregolare e disarticolato di «cose» linguistiche. Di qui una certa cosificazione presente anche nella poesia di Cipparrone (l voler indicare le «cose» nude e crude). Ma il problema di trovare una soluzione estetica non ci esime dal dire che essa per esserci deve fare i conti con quella cosa che chiamiamo «tradizione»; voglio dire che non si dà alcuna «forma» in assenza di una «tradizione» e in assenza di quell’altra cosa che chiamiamo eufemisticamente «storia».
A me sembra però che in molti autori di poesia di oggi risalti proprio il loro voler essere fuori dalla storia e dalla tradizione: si va verso il luddismo della parola, verso nuove forme di paroliberismo di ritorno, verso la riproposizione di una poesia ottica, o acustica, verso una affabulazione magari attrezzata; molti autori vogliono liquidare la questione, posta in termini forse un po’ troppo frontali, del rapporto che lega la poesia alla storia e quindi al Politico, o al Mito. Che però non si danno per decreto. Essi rischiano di fare poesia in modo irriflesso (per eccesso di mediazione), riducono la «tradizione» ad un campionario di oggetti retorici da saccheggiare, costoro non si accorgono di indossare un abito manieristico, fanno del manierismo un bell’abito da indossare, si vestono a festa, vogliono ingannare il lettore mostrandogli i dettagli dell’abito, le sue qualità, le sue (false) profondità, le sue quintessenze, le sue insostanziali qualità auratiche e spirituali: in proposito mi viene in mente la poesia di un de Signoribus, che è la tipica poesia di chi vuole prendere le distanze da tutto, che vuole eccedere in zelo, nello zelo profumato del manierismo e dell’eufuismo. C’è molto profumo in questo tipo di poesia. Con il che questa poesia corre il rischio di diventare un esercizio di stile, magari ben cucito e confezionato ma di stile. È una nuova forma di retorica che qui ha luogo, con tutto l’appannaggio di retorismi e di preziosismi e di inversioni sintattiche e semantiche. La poesia diventa così una particolare confezione di retorismi e di barocchismi.

Se c’è una cosa che manca invece alla poesia di Carlo Cipparrone è l’assenza di profumo, l’assenza completa di aura, di manierismo e di eufuismo, il suo vestito di parole è un saio ruvido, scabro, opaco, da figlio illegittimo e periferico del proprio tempo:

Poesia, sono un tuo figlio,

spurio, illegittimo, indesiderato

che tuttavia esiste

e invano cerchi di nascondere;

sono la tua vergogna,

la prova del tuo giovanile peccato.

Perdonami se ho sporcato

di nero inchiostro

le tue pagine immacolate,

d’urina e di cacca le bianche

lenzuola della tua reputazione.

Scaturito dal tuo grembo, anch’io

sono sangue del tuo sangue;

vuoi o non vuoi, anch’io t’appartengo.

Di recente, ha scritto Giuseppina Di Leo a proposito della tesi secondo cui la poesia oggi vada verso una estrema periferia: «il poeta esodante sa che la realtà sfugge alla forma. Sa che la forma (e la forma in generale, non solo la “bella forma”) è in sé già distanziamento (problematico), se non repulsione (problematica) della realtà»;  è implicito, prosegue la Di Leo, «sapere di non sapere», risultano per me davvero incomprensibili i distinguo rivolti «a chi trova poetico soltanto ciò che «attinge a ben altre radici (sogno, inconscio, Altro)» vuole essere una contrapposizione ai liquidatori estremi della ragione».

Concordo con la precisazione della Di Leo: sfuggire alla «forma» equivale al voler sfuggire al problema, fuori della «forma» non si dà letteratura per il semplice fatto che quando si infrange una forma si precipita inconsapevolmente in un’altra «forma», non c’è via di uscita da questa regola della dialettica delle forme. Ed è il succo della critica che Pasolini muoveva alla«forma» desublimata e alto borghese della poesia di Montale il quale voleva sfuggire al problema della storia e dei conflitti che in essa insorgono con il semplice appannaggio della forma poetica. Era una via di fuga quella apprestata da Montale: qui non c’è ombra di dubbio che Pasolini avesse intravisto un problema reale, ed era un appunto molto acuto Pasolini quando indicava, a proposito della poesia di Fortini, che essa nascesse da «un momento di sosta della lotta»:

«Tutte le poesie di Fortini hanno l’aria di essere scritte durante una “sosta della lotta”. (Cosa che del resto in sostanza risponde a verità). Scende la notte, le sparatorie si diradano, i guerrieri accendono il fuoco, e chi canta sulla chitarra, chi scrive lettere a casa, e chi si raccoglie in un angolo buio, dove stenta giunge la luna, e sul vecchio quadernetto scrive i suoi amari versi. Ma è chiaro tuttavia che per lui la metastoricità dell’atto poetico (che necessariamente avviene appunto in una «sosta», in un angolo fuori dell’azione, in una piega segreta della storia) in tanto vale in quanto è ancora ripensamento della lotta, attraverso un semplice mutamento di registro».

Direi che tutte le poesie di Cipparrone sembrano scritte durante una pausa della sua personale, privata resistenza alla invasione della volgarizzazione della poesia oggi di moda; tracce, marche di una personale lotta di resistenza e di liberazione dal conformismo delle ombelicali scritture neutrali, sono aculei, lance appuntite rivolte contro gli opportunismi (non solo) letterari. Il poemetto«Betocchi», che chiude il volume, illustra bene il tipo ideale di poeta di Cipparrone: un raffinato e acuto poeta di campagna, alieno dai compromessi con l’industria culturale, allergico alla scrittura desostantivata di «frammenti lirici» di Montale e Ungaretti, un vigile osservatore di ogni particolare al quale nulla sfugge; lo scabro parlare del poemetto è anche la migliore confutazione dei grimaldelli stilistici oggi di moda o delle scritture, diciamo, commissionate:

Betocchi attento osservava ogni cosa.

Parlava e la sua voce mi giungeva

disturbata dal brusio della gente,

dal rumore delle ruote e degli zoccoli.

A stento percepivo le sue frasi

dette in pronuncia fiorentina,

parole rivolte a me

ma forse più a se stesso.

Sosteneva che Piovene

nel suo Viaggio in Italia

– parlando di Cosenza –

aveva esagerato nel descrivere

le bellezze del Duomo e la sua piazza,

e – cambiando argomento –

che c’era nell’italica triade

dei sommi poeti del tempo

chi godeva d’eccessiva fama

e che, in fondo, anche Montale e Ungaretti,

grandi rispetto a tutti gli altri,

non lo erano poi tanto

perché – vizio comune al nostro Novecento –

autori geniali non di poemi

ma di lirici fammenti.

Le «cose», gli «oggetti» della poesia di Cipparrone saltano fuori da tutte le pieghe delle sue poesie, sono «cose» che si sono sporcate e contaminate con la vita vissuta, non sono mai rivestite di stile o di sophia, ci senti sempre una autenticità lì dentro che pulsa; la dimensione del poeta è l’essere un «clandestino» in viaggio in attesa di essere accettato dalla società, un marginale, un inguaribile diverso, un riottoso periferico che vive in  una sorta di esilio ma senza che lo sia stato decretato da alcuno, destinatario di una attesa senza fine.

La poesia di Cipparrone si ciba del terriccio, parla di «betoniera», «pile di mattoni», «cumuli di sabbia e ghiaia», c’è un «battere i chiodi sulle casseforme», c’è un «limone spremuto»; «l’ispirazione» è «quella bassa, mediocre, alla mia portata»; la sua meta è scrivere una poesia povera, ma vera, «a bassa quota», «gomito a gomito», con «i piedi in terra»:

Non pretendiamo troppo

dai nostri versi, non chiediamogli

nulla di più di ciò che sono:

scorie di bosco, inariditi rami,

foglie secche, tozzi di legno

che ardendo si consumano.

Servono a tener vivo il fuoco.

*

Non vale abolire le virgole,

punti, cambiare accenti,

scardinare grammatica

sintassi metrica; né serve

scrivere come viene viene

senza star lì a lisciar troppo il pelo

alla bestia selvatica che è il testo.

Non serve ignorare o trasgredire canoni,

leggi, evadere dal carcere delle regole.

Meglio star zitti o dire il meno possibile.

Allora, il silenzio e la parola scabra sono il risultato di questa petizione di principio: voler essere se stessi nel polemos, senza ridondanze e senza ricordanze, ma con le discordanze e gli inceppamenti di un discorso votato alla propria assolutezza mediante un registro sobrio, spoglio, scabro, essenziale. Ricordo qui, per altri versi, come anche un altro poeta calabrese un altro periferico, sia giunto alla medesima posizione di poetica, quel Dante Maffìa che scrive Io poema totale della dissolvenza edito di recente da EdiLet.

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